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Mario Corti, Storie Di Italiani In Terra Russa
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Messaggio Mario Corti, Storie Di Italiani In Terra Russa 
 
M Corti, Storie di italiani in terra russa, in “La Nuova Europa”, n. 4, luglio 2006, pp. 79-85.
Il testo è sul sito dell’Autore: http://www.mario-corti.com in lingua italiana e russa.


 corti
L'autore

Nato a Trezzo sull’Adda (MI) nel 1945, Mario Corti ha trascorso l’infanzia in Argentina, per poi diplomarsi al Conservatorio di Milano. È traduttore (conosce undici lingue), giornalista, scrittore, autore e direttore di programmi radiofonici in Germania e nella Repubblica Ceka sulla storia russa, sul samizdat (editoria clandestina espressione della cultura alternativa e dell'opposizione al totalitarismo) e sui rapporti artistico-culturali tra Russia e Italia, fondatore in Italia di molte iniziative italo-russe (tra cui l’editrice Casa di Matriona), organizzatore di mostre documentarie... L’articolo sugli italiani in Russia è già presente sul suo sito personale – al quale si rimanda per leggere La musica italiana nel Settecento a San Pietroburgo – ma lo si ripropone perché inquadra efficacemente le molte sfaccettature che hanno assunto i rapporti tra i due popoli dal XII secolo.


Prima di Rastrelli, che ornò Pietroburgo, e prima di Aristotele Fioravanti, che lavorò nel Cremlino, gli italiani si erano insediati nella Russia meridionale già nel XII secolo, lungo le direttrici che portavano in Oriente per via di terra. Spregiudicati e ingegnosi, fecero tutti i mestieri e si allearono con tutti. E diedero origine a un termine del russo antico, frjazin, che indicava ad un tempo il genovese e l’italiano in genere.

«Quivi comenciano le cose vedute et audite per mi, Iosaphath Barbaro, citadin de Venetia, in do viazi, che io ho fatti — uno a la Tana et uno in Persia». Giosafat Barbaro saccheggiava i kurgan. Assieme a un gruppo di amici, il veneziano era andato alla ricerca di un grande tesoro nascosto, a quanto si diceva, in un tumulo chiamato Contebbe, nel quale avrebbe dovuto essere sepolto il leggendario Indiabu, re degli alani. Trovarono di tutto, tranne il tesoro: «scorze di miglio… squame di pesci… alcuni vasi di pietra… 5 o 6 paternostri grandi come naranzi… di terra cotta invetriata… un mezzo manico d’un ramino d’argento picciolino, ch’avea di sopra a modo d’una testa di biscia». Il vero tesoro fu scoperto molto più tardi da un gruppo di archeologi sovietici, non lontano dal luogo in cui avevano scavato Barbaro e i suoi amici. Il sito archeologico sorge nei pressi di Kobjakovo, non lontano da Rostov sul Don, e le sue vestigia risalgono al periodo sarmatico.

Tana era un avamposto dei veneziani e dei genovesi all’incrocio delle rotte commerciali che si diramavano in direzione del Volga, dell’Asia centrale verso la Cina e l’India, della Transcaucasia verso la Persia. Sorgeva più o meno in coincidenza con la moderna Azov, vicino alle foci del Don, l’antico Tanais. Nella letteratura russa antica troviamo diversi riferimenti alle colonie genovesi e veneziane. In particolare, sia il Viaggio di Ignatij Smol’nianin, sia il Viaggio di Pimen, riferiscono la cattura di Pimen, a cui i genovesi nel 1379 avevano prestato del denaro perché potesse comprarsi l’investitura a metropolita di Mosca e di tutte le Russie presso il Patriarca di Costantinopoli: «i franchi stranieri… che allora risiedevano in Azov, assalirono la nave… e lo incatenarono». Pimen, che si recava a Costantinopoli per la seconda volta, fu rilasciato solo dopo aver dato garanzia che avrebbe finalmente pagato il debito.

Se a Tana veneziani e genovesi cercano di convivere per quanto possibile pacificamente, in Crimea la situazione è completamente diversa. Veneziani, genovesi e pisani compaiono a Soldaia nel secolo XII. Ognuno di loro cercava di prendere il controllo della navigazione sul Mar Nero e il Mare di Azov nonché di occupare i crocevia delle rotte commerciali. Usciti dal gioco i pisani, i veneziani, subito dopo la presa di Costantinopoli nel 1204, consolidarono le loro posizioni a Soldaia. I genovesi a loro volta si stabilirono saldamente a Caffa. Ma non appena l’imperatore di Nicea Michele Paleologo, alleato dei genovesi, si insediò a Costantinopoli, i liguri presero il sopravvento in tutta la regione costiera, da Cembalo a Bosporo. Caffa, la “regina del Mar Nero”, divenne il centro di irradiazione dell’espansione genovese e la capitale della regione chiamata Gazaria. Nel 1475 Caffa cadde sotto i colpi dei turchi e dei tatari, segnando la fine dell’influenza genovese nella Tauride.

Nel 1356 la Cronaca di Nikon registra l’arrivo a Mosca del tataro Iryncej accompagnato dai cosiddetti “gosti surozane”. Costoro erano mercanti provenienti dagli insediamenti genovesi della Crimea, che poi si stabilirono a Mosca permanentemente a rappresentare le case commerciali della Tauride e facilitare gli interscambi.

Con i tatari i rapporti furono complessi. Le incursioni contro le città costiere si alternavano a periodi di relativa tranquillità, e comunque i genovesi pagavano un regolare tributo al khan. Fanti genovesi degli insediamenti furono ingaggiati da Mamaj e combatterono nella battaglia di Kulikovo contro le truppe di Dmitrij Donskoj. Sconfitto, Mamaj fuggì a Caffa, e le cronace riferiscono che fu assassinato dai genovesi. Mamaj, «…sotto false spoglie si nascose in quella città, ma riconosciuto da un mercante fu ucciso dai franchi» – dice la Narrazione sulla pugna di Mamaj. Secondo una versione leggendaria, Mamaj avrebbe abbandonato i genovesi sul campo senza avvertirli della ritirata, e i genovesi di Caffa l’avrebbero assassinato per vendicare il suo tradimento. Ma vi è chi sostiene che essi abbiano semplicemente venduto la sua testa al rivale Tochtamys.

La fine della dominazione genovese in Crimea e l’ascesa della potenza portoghese che controllava le vie del commercio verso il Levante, estromise Genova dalle rotte commerciali con l’Oriente. Ed ecco che nel 1520 fece la sua comparsa a Mosca il genovese Paolo Centurione. Portava con sé una lettera di Leone X al Granduca Vasilij III. Al Papa stava a cuore l’unione delle chiese, ma a Centurione e alla repubblica di Genova probabilmente interessava di più l’apertura di una nuova via di traffico verso l’Oriente. Così Paolo Giovio presenta la missione del genovese: «il detto messer Paolo… cercava una nuova e incredibil via da condur le specierie dall’India, avendo egli per fama inteso, mentre negoziava in Soria, in Egitto e in Ponto, che dall’ultima India su pel fiume Indo a contrario d’acqua si potevano condurre spezierie, e quindi per poco spazio di cammino per terra, passando per la sommità de’ monti di Paropaniside, condurle in Oxo, fiume de’ Bactriani, il quale quasi dagl’istessi monti che nasce Indo, con corso contrario, menando seco molti fiumi, appresso ’l porto di Strava entra nel mar Caspio. E finalmente contrastava, dicendo che gli pareva facile e sicura navigazione da Strava infino a Citrachan, città mercantesca, e alla bocca del fiume Volga, e d’indi poi su per il fiume Volga, Occha e Mosco facilmente potersi andare alla città di Moscovia, e da Moscovia per terra a Riga e al mar della Sarmazia e a tutti li paesi di ponente… Ma benchè messer Paolo, sottilmente discorrendo di queste cose e mettendo in grandissimo odio li Portoghesi, mostrasse che se si aprisse questo viaggio molto maggiormente s’accrescerebbono le gabelle del re, e a miglior mercato potriano essi Moscoviti comprar le spezie, delle quali in tutte le vivande ne consumano gran copia, nondimeno non poté in quanto a cotal negozio impetrar cosa alcuna, perciochè Basilio giudicava che non si dovesse a un forestiero e non conosciuto mostrar quei paesi i quali dessero la strada d’andare nel mar Caspio e nei regni de’ Persiani. Sí che, essendo messer Paolo fuor d’ogni speranza d’ottenere il desiderio suo, diventato di mercante ambasciadore, essendo già morto papa Leone, portò lettere a papa Adriano, per le quali il detto Basilio con molto onorate parole dimostrava il suo buon animo verso ’l pontefice romano».

Artisti e imprenditori

Frjag, frjazi, frjazove, frjaziny. Franchi, stando al dizionario etimologico di Max Vasmer. Così furono chiamati in Russia i genovesi. E questi furono i nomi con cui poi vennero indistintamente designati tutti gli italiani. Bon Frjazin (Marco Bono), Mark Frjazin (Marco Ruffo), Anton Frjazin (Antonio Gilardi), Aleviz Frjazin Starsij (Aloisio Caresana Vercellese), Petr Frjazin (Pietro Antonio Solari), il già ricordato Ivan Frjazin (Giovanni Battista della Volpe), Nikolaj Frjazin, e via discorrendo. Frjazskaja Zemlja era la terra d’Italia. E poi frjazskoe serebro, frjaskie vina. Da qui i nomi geografici Frjazino, Frjazinovo, Frjanovo, Frenevo e, a Vologda, Frjazinovskaja nabereznaja, la Riva degli italiani.

Sono nomi di architetti, ma poiché sugli architetti italiani in Russia si è versato inchiostro in abbondanza, diremo solo che i primi fra loro in ordine di tempo dovettero mostrare tutta la loro versatilità. Furono infatti fortificatori, ingegneri, fonditori, fabbricanti di cannoni, coniatori di monete e costruttori di macchine da guerra. Insomma, erano autentici “meccanici”, e quindi tanto più graditi alla corte di Mosca. Nikolaj Frjazin costruì una campana di cinquecento libbre che fu denominata “Lebed’” (Il cigno), e la “Blagovest” (la Buona Novella) di libbre mille. Aristotele Fioravanti fu un vero uomo del Rinascimento, una specie di Leonardo o di Leon Battista Alberti in terra russa. Egli non soltanto edificò chiese e fortezze, fabbricò macchine per lo spostamento di interi edifici e fuse cannoni: nel 1485 fu a capo dell’artiglieria di Ivan III durante la campagna contro Tver’ e le sue macchine da guerra furono utilizzate durante la presa di Novgorod e di Kazan’.

Inoltre, i frjazny dovettero dar prova di spirito imprenditoriale. Il loro compito non era facile: si trattava di fare mattoni e altri materiali da costruzione e di addestrare la manodopera locale. Giovanni Battista della Volpe, noto come Ivan Frjazin, fu a capo della zecca, mentre l’architetto Alvise Lamberti da Montagnana dirigeva il polverificio. Aristotele Fioravanti allestiva mattonifici e fondò la cosiddetta “Pusecnaja izba” [Pushechnaya izba], la fabbrica di cannoni.

Tra gli “imprenditori” ricordiamo ancora il veneziano Marco Cimoli, il quale, su invito dello zar Fedor Ivanovic, allestì nei pressi della torre campanaria di Ivan il Grande una tessitoria per la produzione di broccati, stoffe damascate e velluti. Un altro veneziano, il gioielliere Francesco Ascentini, si stabilì a Mosca agli inizi del Seicento. Negli anni ottanta del diciottesimo secolo il viaggiatore spagnolo Franciso de Miranda incontra in Crimea un certo conte Parma di Venezia che dirige una piantagione di gelsi. In Russia sono ben conosciuti Ivan Petrovic Liprandi, maggior generale dell’esercito e storico, e suo fratello Pavel, generale di fanteria. Pochi sanno che loro padre, originario di Mondovì, Pietro Liprandi, proprietario di una tessitoria di panni e di seta, nel 1785 fu invitato in Russia, ove fondò le cosiddette manifatture di Alessandro. L’impresario e autore di libretti d’opera Giovanni Battista Locatelli aprì un ristorante a Ekaterinhof. Sappiamo inoltre che un certo Ernst Jakovlevic Zoppi, all’inizio del secolo passato era capo dell’ufficio quotazione della Borsa di Mosca.

Per concludere, è noto che Pietro il Grande utilizzò nei suoi cantieri navali un certo numero di veneziani. Nel 1696, assieme ad altri “marangoni” e costruttori navali il Senato della Repubblica di Venezia inviò un Russia Francesco Guasconi col preciso compito di passare informazioni alla Serenissima.

Italiani in Tauride

La Tauride è la porta meridionale della Russia. La attraversò nel 1786 il rivoluzionario spagnolo Francisco de Miranda, uno dei fondatori della Prima repubblica del Venezuela, proveniente da Costantinopoli e diretto a Pietroburgo. A Cherson conversò con il piemontese Vittorio Amedeo Poggio, aiutante di campo di Aleksandr Nikolaevic Samojlov, comandante del corpo dei cacciatori della Tauride. Miranda accusa Poggio di piaggeria e di ignoranza, poiché costui approvava la deportazione di decine di migliaia di cristiani dalla Crimea nel governatorato di Ekaterinoslav, voluta da Caterina Seconda. Poggio, medico dell’ultimo khan di Crimea Sagin Girej, dopo l’annessione della penisola alla Russia, avvenuta nel 1783, era passato al servizio dell’impero. Poggio in seguito si stabilì assieme alla moglie Maddalena Quattrocchi a Nikolaev. Assieme a Langeron, Richeleu e De Ribas fu uno dei fondatori di Odessa, di cui divenne in seguito presidente dell’amministrazione cittadina. Ha ragione N.Ja. Edel’man nel supporre che fosse il padre dei famosi decabristi Aleksandr e Iosif Poggio. In Crimea il piemontese possedeva anche un pastificio.

Lo stesso Miranda riferisce di un incontro avuto con un maggiore di artiglieria al servizio della Russia, un certo conte Valentini milanese, nella cui casa a Staryj Krym lui, un certo Kiselev e De Ribas «passarono il tempo al servizio di Venere». «Il carattere e la casa del detto Valentino sono assai adatti all’uopo. Quello svago mi è costato appena 13 rubli» – commenta Miranda. A Nezin, sulla strada tra Kiev e Mosca, il nostro è invitato a pranzo da un tal conte Capuani di Piacenza, «brigadiere al servizio di sua Maestà» e comandante militare della città.

Al servizio della Russia fu accolto anche il milanese Giulio Litta, Julij Pompeevic, come fu poi chiamato. Era stato comandato in Russia dal Grande maestro dell’Ordine dei cavalieri di Malta in risposta a una richiesta di Caterina la Grande che aveva bisogno di uomini esperti di marineria. Durante la guerra contro la Svezia (1788-1790) Litta era stato a capo della flotta leggera e dopo una vittoria sul mare aveva ricevuto il grado di contrammiraglio e l’ordine di San Giorgio di terza classe al valore. Divenuto suddito della corona, fece una carriera strabiliante fino a divenire membro del Consiglio di stato. Nel 1830 fu nominato presidente del Dipartimento dell’economia.

In Russia Litta si innamorò perdutamente di Ekaterina Vasil’evna Engelhardt, nipote di Potëmkin e vedova di Pavel Martynovic Skavronskij, che era stato ambasciatore russo a Napoli. Costui, sia detto per inciso, era un appassionato melomane, e obbligava tutta la servitù a usare con lui il recitativo operistico, come faceva immancabilmente egli stesso.

Ricco di famiglia, dopo la morte della consorte Litta ereditò da lei un’enorme fortuna. Fu un uomo di provata onestà: quando era membro del Consiglio di stato, Litta rifiutò di entrare in un’impresa privata con questa motivazione: «È sconveniente promuovere gli interessi privati di un’impresa in qualità di suo fondatore e al contempo discuterne gli statuti, stabilirne i diritti e i privilegi in qualità di membro del Consiglio di stato».

Ma il più famoso ed apprezzato militare italiano al servizio della Russia fu il modenese Filippo Paulucci (1). Comandante in capo delle truppe russe nel Caucaso, con un reparto di appena ottocento uomini riuscì a sconfiggere in battaglia un’armata turco-persiana di diecimila uomini. Sempre nel Caucaso, fece approvare una sua riforma giudiziaria che teneva conto dei costumi locali e coinvolgeva personaggi autorevoli tra la popolazione. Da governatore militare di Riga, durante le guerre napoleoniche riuscì a fermare l’avanzata del maresciallo Macdonald e passò egli stesso all’attacco costringendo il duca di Taranto a capitolare.

A Mosca, dove giunge l’11 maggio del 1787, Francisco de Miranda incontra un nipote di Nikita Panin, ministro degli esteri di Caterina. Nel mostrare al rivoluzionario ispano-americano un tempio nella tenuta di famiglia a Michalkovo, il giovane lo informa che la casata dei Panin è di origine lucchese, e che il loro cognome originario era Panini.

Il grande scritore russo Nikolaj Leskov in un saggio ironico intitolato Note sui cognomi nobiliari (Zametki o rodovych prozviscach) si burlava dei parvenue che sentivano il bisogno di «inventarsi antenati immaginari». «Dotte ricerche moscovite fanno derivare la casata degli Alfer’ev dal «famoso italiano Alfieri», scrive Leskov. Di Sergej Petrovic Alfer’ev, zio dello scrittore, che era professore all’Università di Kiev e in gioventù era stato di bella presenza, si diceva che fosse evidente in lui «la fine razza italiana». «Com’è possibile – si domanda Leskov – che l’italiano Alfieri abbia potuto moltiplicarsi ovunque in modo tale, che è impossibile contare la sua discendenza». È ovvio che lo scrittore non si riferisse a Vittorio Alfieri, che pur ci ha lasciato qualche scarna testimonianza sulla sua permanenza in Russia (Alfieri si concentrò prevalentemente sui cavalli e sulle barbe): gli Alfer’ev esistevano da molto prima che il poeta facesse la sua comparsa in Russia. Ma è interessante rilevare che nella sua Vita l’Alfieri parla di compagni russi che studiavano all’Accademia militare di Torino e che abitavano con inglesi, tedeschi e altri stranieri nel cosiddetto Primo Appartamento. Forse varrebbe la pena di indagare per capire chi fossero quei moscoviti, «appartenenti alle migliore famiglie del paese», studenti a Torino verso la metà del Settecento.

Non so se i Panin fossero davvero di origini italiane. Certo è che non erano parvenue. Ma il loro fregiarsi di quell’ascendenza dimostra che un tempo in Russia era motivo di orgoglio avere italiani tra i propri antenati.


(1) Filippo Paulucci è citato in "Guerra e pace" di Lev Tolstoj

http://www.larici.it/culturadellest/storia/corti/index.htm
 




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