Ivan Krylov, Favole, 1809-1820

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Lo scrittore e commediografo russo Ivan Andreevic Krylov (1768-1844) era un impiegato a San Pietroburgo che amava scrivere satire sociali su alcuni giornali, ma poi questi furono soppressi e Krylov dovette lasciare la capitale, potendovi tornare soltanto quando salì al trono lo zar Alessandro I. Riprese l’attività letteraria all’interno del movimento intellettuale che mirava a creare un letteratura nazionale russa e in cui militava, tra gli altri, Aleksandr Puskin. Nel 1805, traducendo le favole di Jean de La Fontaine, Krylov decise di scriverne di proprie, che, in parte, furono pubblicate in nove volumi tra il 1809 e il 1820 ottenendo un enorme successo. Nelle sue favole, scritte in modo vivace, incisivo e con il linguaggio del popolo, si mescolano folclore e saggezza contadina e vengono presi di mira la presunzione e la stupidità dell’uomo. Non solo, la satira di Krylov colpiva, attraverso atteggiamenti e parole degli animali umanizzati, la politica russa dell’epoca, in particolare gli aspetti repressivi dell’autocrazia, ed è per questo che le favole più audaci furono divulgate soltanto molti anni dopo la morte dell’Autore.
L’idea di tradurre le favole di Krylov nelle lingue italiana e francese maturò nel salotto parigino dei conti Orlov, i quali provvidero a redigere la prima traduzione letterale e in prosa dal russo al francese. È su questa base che i maggiori poeti italiani dell’epoca – tra cui spiccano Vincenzo Monti e Ippolito Pindemonte, insuperati traduttori, rispettivamente, dell’Iliade e dell’Odissea di Omero – furono chiamati a riconvertire le favole in poesia. Ha scritto il poeta ed estensore della prefazione italiana Franco Salfi: «Trenta sono gl’Italiani che hanno imitato nel loro idioma le favole del Kriloff. Tutti ignorando probabilmente la lingua russa, hanno più o meno seguito la versione che il Signor Conte Orloff avea preparata a questo fine, e che dee reputarsi perciò fedelissima. Non potendo però attingere al fonte originale i molti vezzi che nelle traduzioni letterali in gran parte svaniscono, gl’imitatori hanno dovuto di necessità eseguire quello che tanti altri aveano fatto a disegno, imitando liberamente il modello che potevano fedelmente tradurre. Le loro imitazioni sono dovute dunque riuscire per lo più liberissime, e forse alcune poco della forma originale ritengono. E se questo torna in certo modo a pregiudizio dell’autore, può riguardarsi come un vantaggio pel traduttore, il quale può spaziare più francamente sul tema indicato. Così rimanendo sempre al Kriloff il merito dell’invenzione, i suoi imitatori non hanno potuto far altro che variarne più o meno la forma». Di conseguenza, le ragioni di rileggere oggi queste favole sono molte: l’invenzione dell’Autore, la satira che le caratterizza (di cui oggi non sempre è individuabile lo specifico soggetto punzecchiato da Krylov) e, soprattutto, le differenze tra i poeti italiani nel primo Ottocento (dei quali, ove possibile, è stato messo il nome intero nell’indice): differenze di interpretazione, costruzione e stile che ben si colgono quando due poeti interpretano la stessa favola (LXIV-LXV; LXXII-LXXIII; LXXXV-LXXXVI). Non è un caso, quindi, che il titolo della raccolta italiana riporti che le favole sono «imitate in versi».
Sono qui riproposte fedelmente, compresi refusi ed errori, le 85 favole (88 poesie) pubblicate nel 1827, le ultime rivedute dagli stessi poeti che vi si dedicarono la prima volta. Nell’elenco sembra mancare la favola n. XXXVI, ma è un errore di numerazione presente nell’originale.


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L’Aquila e il Ragno (Angelo Maria Ricci)


Sul Caucaso gelato alto le penne
L’Aquila invitta dispiegando ai venti,
Sovra un’antico abete il vol trattenne;

E del tempo, e del dì le vie lucenti
Tranquillamente a contemplar si stette;
E i confini del mondo, e delle genti.

Vide i ruscelli trà le pingui erbette
Luccicar chiari, e il Caspio mar lontano
Negreggiar con le torbe onde soggette;

E a te, Nume, dicea, Nume sovrano,
Grazie rendo, che un guardo, e un vol mi desti
Da trascorrer la terra e l’oceano:

Allor che un Ragno a lei rispose in questi
Suberbi detti.... E a che vantar te stessa,
Forse sovra di te null’altro avesti...?

Mirami.... e la pupilla circonflessa
Volgendo ella sdegnosa a tai parole,
Un Ragno vide che pendea sovr’essa:

E sospesa la tela avea, qual suole
Da un picciol ramo, e intercettarle il lume
Parea volesse, o almen velarle il Sole....

O tu che basso errare hai per costume
Come, l’Aquila disse, a cotal segno
Senza corpo salisti, e senza piume?

Ed ei... ringrazio il mio sottile ingegno;
Io sovra te mi rampicai dal suolo,
E mi fù la tua coda ala e sostegno:

Or più di te non ho bisogno.... e solo
Mi reggo in alto; il tuono abbassa... o ch’io...
Ma in così dire un zeffiretto a volo

Sorse,.... ruppe la tela... il mormorìo
Soffocò travolando; e il Ragno esile
Ricadde, atomo impuro, al suol natio.

Tal de grandi alla destra appeso un vile
Di fortuna orditor si attien devoto
E in alto poggia, e gonfio cangia stile;

Fin ch’aura lieve lo ricacci al loto.

A. M. Ricci

http://www.larici.it/culturadellest/letteratura/krylov/index.htm

http://www.larici.it/culturadellest/letteratura/krylov/01.htm